La leggenda della Valle del Boia
L’ARRIVO
Quando attraversò la piazza Visconti di Orago fu subito
notato e tutti capirono che si trattava di un forestiero che arrivava da molto
da lontano.
Quando arrivò all’osteria del Monte Boso (oggi si chiama
monte Rosa, sia il monte che l’Osteria) a Jerago per trovare alloggio, il chiacchiericcio
era già iniziato.
La sciura Anna, aveva già sentenziato che si trattasse di
una brava persona, mentre la sciura Gina esprimeva fortissimi dubbi, anzi, si
sentiva ‘quasi certa di averlo già visto in ‘qualche brutto posto’, anche se
tiene a chiarire di non aver mai frequentato brutti posti.
La sera, in piazza Ottone Visconti, la piazza principale di
Jerago, si formò il crocchio di gente per commentare il nuovo arrivo.
Veniva da lontano, lo si vedeva dal colore della pelle scura
e dai tratti somatici vagamente orientali.
colpirono i suoi profondi occhi blu e la possanza della persona. Il Gigi
disse subito che, secondo lui arrivava almeno da Gallarate. “l’è da Tradà”, rilanciò qualcuno, il Pepin rilanciò
“l’è almen da Saronn” e di paese in paese si arrivò sino a Monza, in quel
mentre intervenne però Beppe Cardini dicendo sicuro: “Chel lì l’è da Bergum”!
Di fronte a cotanto personaggio, la discussione si interruppe e tutti
convennero: “L’è da Bergum!”.
GLI AFFARI
Aveva chiaramente delle finanze disponibili, perché dopo
circa due mesi, acquistò una casetta in zona Mont Mouscon, un robusto carro e
due grossi buoi. Con questi iniziò un’attività tipica del nostro comune di quei
tempi. Allora infatti in Orago c’erano tre importanti mulini che operavano
sull’Arnetta e macinavano farina sia da pane che da polenta. Con il nuovo
arrivato il lavoro aumentò, grazie alla disponibilità del trasporto, e si iniziò
a lavorare per i produttori di grano di una zona molto più ampia e furono in
molti a trarne vantaggio.
A Jerago invece c’erano alcune fornaci per mattoni e coppi;
la più importante copriva tutto il margine sinistro della attuale via Moncucco
sino alla discesa di Cavaria. Il materiale base era prelevato alle falde del
Monte Cucco ove oggi c’è il laghetto. Durante il periodo di fermo della
produzione agricola di frumento e granoturco, il Nostro trasportava mattoni e
coppi sino all’Ippovia di Sesto Calende da dove, allora, si caricavano i
barconi avviati alla città di Milano; erano quelli gli anni durante i quali era
in costruzione il Duomo, iniziato nel 1386.
Queste due risorse del nostro territorio ebbero un forte
impulso, perché in circa tre anni l’attività si ampliò sia per il Nostro, sia
per altri che intrapresero la stessa iniziativa: erano una dozzina i
trasportatori e quasi un centinaio i buoi e i lavoratori impegnati.
LA SUA STORIA
E venne il giorno cruciale della nostra storia. Era la
vigilia di natale del 1417, arrivò un piccolo esercito del famoso condottiero,
capo delle forze armate dei visconti, Francesco da Bussone, noto come “Conte di
Carmagnola”. Il paese era in subbuglio e ci vollero quasi tre ore prima che le
Sciure che poi erano l’Anna e la Gina, scoprissero di cosa si trattasse. La
grande incredibile notizia era che entro sei mesi il Conte di Carmagnola
avrebbe sposato la Contessa Antonietta Visconti, nostra concittadina;
Antonietta viveva infatti al castello di Jerago.
Al Nostro venne quasi una sorta di infarto non sapeva se
essere felice o preoccuparsi. Si rifugiò all’osteria della piazza Filippo M.
Visconti (oggi piazza Mazzini) e lì visibilmente scosso e eccitato, si affidò a
numerose bevute nervose e infine, alticcio, confidò ai compaesani la sua
storia.
Questa è la storia che raccontò.
In giovane età fu assoldato da un Capitano di ventura per
fare il soldato, un’attività comune e ambita a quei tempi. Divenne molto presto
vice comandante dell’esercito non tanto per la sua bravura di comandante, ma
per la precisione e sveltezza che aveva nell’uso della “Balestra”. Colpiva alla
velocità del fulmine e a distanze per tutti gli altri impossibili. Aveva anche una
sorta di sesto senso: sentiva il nemico. Sentiva il pericolo, imbracciava, armava,
e alla vista del nemico stava già lanciava il dardo.
E fu così che un giorno, durante una battaglia ormai vinta,
rientrando all’accampamento sentì, vide il nemico e lanciò. Nel breve istante
che separa il lancio dal conficcarsi il dardo nel petto, riconobbe la vittima:
nel mezzo alla foresta un urlo straziate risuonò fino alla valle vicina:
“Pierooooooo”: il nemico che aveva appena colpito era suo fratello. Piero si
era infatti arruolato nell’esercito della Serenissima, mentre lui combatteva
per il Ducato di Milano dei Visconti.
Da quel giorno smise di fare il soldato.
Il suo comandante, grande uomo oltre che condottiero,
comprese il problema e gli concesse di andarsene concedendogli anche delle
importanti sostanze economiche per potersi rifare una vita.
Da allora decise, per ricordare il suo amato fratello, di farsi
chiamare Piero.
Fu così che arrivò a Jerago e, dopo avere iniziato
l’attività di cui abbiamo parlato sposò una bella ragazza del paese del ceppo
dei Cardini ed ebbe tre figli cui ritenne opportuno dare il cognome della
moglie. Il primogenito lo volle chiamare Piero e decise che così si sarebbero
dovuti chiamare tutti i futuri primogeniti della sua stirpe. (…..)
Quando Piero ebbe finito di raccontare la sua storia vi fu
un lungo silenzio interrotto dal solito Cardoni che disse: “Storia interessante
ed avvincente, successa molto tempo fa, ma oggi, per quale motivo sei così
stravolto?”
“È vero”, esclamò Piero, “non vi ho ancora detto il nome del
mio carissimo comandante, si chiamava, anzi si chiama Francesco da Bussone, il
conte di Carmagnola”.
L’AMBIENTE SOCIALE
Già a capodanno, nonostante le informazioni a quel tempo
fossero molto lente ad arrivare, si sapeva tutto: il matrimonio si sarebbe
celebrato alla chiesetta del Castello la sera di giovedì 5 maggio alle diciotto
in punto con gran seguito di cena in pompa magna. La cerimonia si sarebbe
ripetuta a Sant’Ambrogio a Milano la domenica successiva e già il lunedì gli
sposi sarebbero tornati a Jerago per una breve luna di miele di sette giorni
durante i quali il popolo sarebbe stato allietato da feste, balli e grandi
bevute in onore degli sposi. Il luogo ove si sarebbero svolte le manifestazioni
non sarebbe stato al Castello, ovviamente, ma il Mont Mouscon. Per tradizione
sino agli anni 60 del secolo scorso, al Mouscon, trovavano luogo ancora tutte
le feste popolari.
La grande lotteria delle raccomandazioni, per ottenere gli
inviti, iniziò già ad epifania.
Nobiltà, Clero e Signorotti vari furono da quel momento in
fibrillazione.
Ma vediamo come fosse strutturata la comunità di quel tempo.
Nobili erano solo i membri della famiglia di Antonietta: I
Visconti;
Poi c’erano i membri del clero: Era alquanto importante
Orago che era arcidiocesi (pare questo il motivo per cui ai musei vaticani, ancora
oggi, compare solo Orago), titolo importante e quasi nobiliare per il parroco,
che infatti contava ben tre sacerdoti coadiuvanti; Jerago invece allora era
semplicemente una piccola parrocchia appena formata intorno al Castello, un
solo cappellano.
Poi c’erano i Signorotti che erano in pratica tre famiglie:
gli oraghesi erano sostanzialmente solo il ceppo degli Scheletriti. Gli
Jeraghesi invece un tempo erano formati da due ceppi, i Cardini e i Cardoni
provenienti rispettivamente da Castelseprio e da Golasecca. Col passare del
tempo, numerose unioni tra le due famiglie crearono delle confusioni, per cui
alla fine si decise che i discendenti dell’unione dei due ceppi si sarebbero
tutti chiamati Cardani (in quella fase transitoria le famiglie erano addirittura
tre).
La ricchezza, che ovviamente contava nell’evidenziare queste
dinastie, proveniva dalle rispettive e principali attività dei luoghi: Gli
Scheletriti erano i gestori dei mulini dell’Arnetta, i Cardini e i Cardoni
gestivano le fornaci e il commercio di coppi e mattoni. Il popolino invece
viveva di agricoltura, contadini con piccoli e poveri appezzamenti a Jerago,
mezzadri alle dipendenze di un grande latifondista con famiglia, gli
Scheletriti appunto, a Orago (il nostro odierno storico Jeraghese sostiene che
per questo motivo Orago sia ancora oggi di sinistra, contrariamente ai piccoli
proprietari e commercianti di Jerago).
Non c’erano grossi problemi tra le tre famiglie e ognuno
badava ai suoi affari. Il clero, come sempre assolveva al suo compito di tenere
a bada il popolino e tutto funzionava perfettamente.
In questa tranquilla situazione, la notizia del matrimonio,
era talmente importante e pazzesca che per i mesi mancanti alla cerimonia i due
paesi furono un fiorire di idee, progetti e iniziative tutte mirate a fare di
quel matrimonio la festa più bella possibile: fu la più bella primavera del
secolo.
IL MATRIMONIO
Non vi fu problema di inviti gli abitanti del tempo erano
seicentoventotto in tutto: trecentoquarantanove a Orago e duecentosettantanove
a Jerago e tutti invitati: i Cardini, Cardoni, Cardani e Scheletriti e il clero
tutto dentro al Castello, il resto appena fuori intorno alla chiesetta
palatina.
L’invito al nostro Piero arrivò addirittura con un messo Ducale
ad hoc, con allegata una missiva del suo Comandante, il Carmagnola, che
esprimeva la gioia di poterlo finalmente rincontrare.
Tutto era assolutamente perfetto.
Quel giorno arrivò. Piero fu fatto sedere al tavolo degli
sposi, appena oltre i familiari della coppia.
La festa fu meravigliosa, tutto si svolse in modo impeccabile.
Piero poté abbracciare il suo Comandante ricordare i tempi le battaglie e le
amicizie, ebbe l’onore anche del bacio alla sposa, concesso allora solo ai
parenti.
Il banchetto si protrasse tra cibi e grandi libagioni sino
alle cinque del mattino, quando lentamente e barcollanti, gli invitati se ne
tornarono alle loro case.
Piero viveva ancora alla periferia, vicino al Monte Moscone,
con la sua famiglia e i suoi numerosi buoi, e colà lentamente si avviò.
L’OMICIDIO
Stava attraversando la piazzetta ove un giorno avrebbero
costruito il San Rocco, quando inciampò su qualcosa. Cadde a terra, ma atterrò
su qualcosa di morbido. Era buio pesto, tastò bene, sentì del liquido vischioso
e caldo tra le dita. Capì subito di cosa si trattasse: quell’odore e quel
liquido lo conosceva bene, era sangue. A terra giaceva un uomo ferito a morte
che emetteva dei rantoli intercalati a soffocate parole: Sei, … tutti, …. Car…
Car… Schel…. Poi un singulto e più nulla. Piero gridò a squarciagola: Accorrete,
Accorrete, Accorrete.!
A tutti coloro che accorsero, la scena si presentò
tremendamente ovvia: un uomo armato, vivo, ed un altro a terra morto.
LA CONDANNA A MORTE
La vittima era del vicino paese di Besnate, un tal
Massucchetti Berto, membro di una importante famiglia del vicino contado
visconteo.
Per “atto dovuto” Piero venne incriminato per omicidio e
immediatamente arrestato.
Erano tempi diversi, ma la giustizia, come oggi, fu
piuttosto lenta, anche perché il caso presentava dei risvolti inquietanti. Le
indagini portavano dritte ai rampolli delle tre casate importanti dei due
paesi.
Già il nostro Piero, chiuso in cella, ricordò il rantolo del
moribondo: Car … Car… Schel…
Inoltre numerosi testimoni fornirono indizi su un
gruppetto di giovani alticci che vennero visti fuggire dal luogo del delitto e
dichiararono si trattasse dei rampolli dei Cardini, Cardoni e Scheletriti.
L’incriminazione e condanna dei giovani avrebbe decapitato
le tre famiglie più altolocate del paese, e, per contro, l’altro imputato era
un personaggio ben visto, importante e con potenti amicizie che arrivavano sino
al comandante in capo delle forze del Ducato di Milano, il Conte di Carmagnola.
Per gli inquirenti un bel problema.
Il destino crudele, per il Nostro, si compì allorquando Il
Duca di Milano, preoccupato dei grandi successi del Carmagnola, decise di
disfarsi di questo ingombrante personaggio.
La storia racconta che il Carmagnola comprese le intenzioni
del Visconti e prima che fosse tardi, lasciò il comando dell’esercito e decise
di allontanarsi dal Ducato.
Era venuta meno, così, la potente protezione per il nostro Piero,
il quale comprese il pericolo, e si preparò al peggio. Convinse la moglie ad andarsene,
con i figli, ed ottenne un salvacondotto con cui la sua famiglia si unì agli
armigeri fedeli al Carmagnola. Seppe che
si erano spostati verso le alpi svizzere e che in seguito erano scesi al nord
del veneto ove La Serenissima repubblica di Venezia assoldò alle sue dipendenze
il Carmagnola. La situazione, per la sua famiglia, fu così salvata.
Non per lui: Il Carmagnola non solo non lo poteva proteggere
ma addirittura era passato al servizio dei nemici e lui, ora, non era che un
piccolo commerciante senza Santi in paradiso, infatti, puntuale, la Giustizia
ripartì e molto in fretta. Dopo un breve anche se controverso processo, venne
condannato a morte.
Non aveva potenti dalla sua parte, Piero, ma aveva
l’apprezzamento di quasi tutti i suoi concittadini, ex collaboratori e colleghi
di lavoro, infatti avvenne che una sera, dalla piazza, partì una lunga
fiaccolata che si recò alla prigione e lo liberarono. La piccola e fragile
prigione era ricavata in quell’immobile oggi scomparso che si trovava tra
l’attuale villa Cova e la scuola materna, usata sino al secolo scorso come
scuola, c’erano poche sicurezze e fu facile liberarlo.
Egli però sapeva bene, o così riteneva, che non l’avrebbe
passata liscia e pensò che fosse cosa saggia ripresentarsi alle autorità
sperando di ottenere, per questo gesto, clemenza.
La sua speranza però si scontrava con due principi legali di
quel tempo che recitavano:
1) Il delitto va punito con la morte;
2) Non si può
condannare due volte per uno stesso delitto;
Quindi, innanzitutto non si poteva
ottenere clemenza e se lui non fosse morto, qualcun altro, prima o poi avrebbe
potuto pagare per quel delitto e giudici e sgherri sapevano bene a chi sarebbe
toccato.
Fu fatta pressione affinché si procedesse al più presto
all’esecuzione.
Era un bellissimo venerdì di sole, ed era sbocciata la
primavera, l’esecuzione sarebbe avvenuta alle sei e trenta del mattino. Tutto era pronto e, incredibilmente, c’era tantissima gente
ad assistere.
Il boia infilò il cappio intorno al collo, il giudice era
pronto al cenno di assenso, quando scoppiò un’incredibile confusione, tutti si
misero a gridare, molti salirono sul patibolo e nell’incredibile parapiglia,
ovviamente organizzato, Piero venne di nuovo liberato.
Lui questa volta capì che non era il caso di fare l’eroe e
fuggì.
Venne subito organizzata una grande caccia al fuggiasco
capitanata, ovviamente, da coloro che avrebbero rischiato molto con quella fuga.
Portarono con loro anche il boia, per sicurezza.
Non c’erano molte vie di fuga se non verso il bosco, la
collinetta del monte Mouscon era l’unica possibilità, attraversarlo e fuggire
poi verso il Seprio e quindi al lago, ove nel caos del commercio lacustre e
fluviale che ben conosceva, avrebbe trovato nascondiglio e protezione. Tutto
questo era evidente però anche ai suoi inseguitori, che organizzarono la
trappola.
I primi nascondigli per lui e per gli inseguitori, furono
gli incavi dell’accampamento romano alle falde del monte, quindi lungo le rive
della valletta del torrentello che alimenta il Rile sino in fondo alla valle,
quella che oggi chiamiamo “La valle del Boia”.
Qui scattò la trappola, il
nostro si trovò circondato.Venne preso, legato, e il boia provvide immediatamente
all’esecuzione appendendolo ad un albero quello che trovò meglio adatto e che
era vicino ad un laghetto. Era un grosso albero con una strana apertura sul tronco
come se i rami si fossero ricongiunti, e in quell’apertura fece scorrere la
corda di ritorno.
Quando Jeraghesi ed Oraghesi arrivarono per salvarlo, Piero
pendeva, morto, da quell’albero.
La tragedia era compiuta.
_______________
Si dice che ciò che conta nella vita sia quanto si lascia ai
posteri e qualcosa Piero lasciò.
Innanzitutto i figli.
Lasciammo i suoi figli protetti a
Venezia ove ben si distinsero per onestà capacità e intelligenza. Il cognome
Cardini che scelse per i suoi figli a Jerago, si trasformò ben a Venezia, in
Cardin. Quando la città fu conquistata da Napoleone un discendente della
famiglia Cardin si trasferì a Parigi. Nel Secolo scorso Piero Cardin diventò
una prestigiosa firma della moda francese famosa in tutto il mondo. In Francia
Piero o Pietro si traduce in Pierre, Pierre Cardin.
Inoltre, nel transito in svizzera il Carmagnola raccontò con
enfasi le gesta eroiche e leggendarie del nostro grande “Balestriere” la cui
moglie e figli erano con lui, e pare che su questi racconti nacque la leggenda
di Wilhelm Tell.
Si narra che ogni cento anni la pianta ove vi fu
l’impiccagione muoia e rinasca con la stessa forma di quel tempo, oggi è una
pianta di circa sedici anni ed è sempre li, vicino al laghetto non molto
lontano dalla valle. Inoltre si dice che al solstizio d’estate sotto l’albero
dell’impiccagione si trovino tracce di polvere rossa e bianca che ricordano la
polvere di mattoni e la farina che egli trasportava.
Lo spunto per le ricerche e la stesura del racconto nacque
casualmente in Sardegna, ove chi scrive, ospite dell’agriturismo del cantante
De André, scoprì che egli trovò spunto per la sua canzone, “La Guerra di Piero”
da racconti legati al dramma del Carmagnola in un libretto sui Visconti.
Altro non so.
Che leggenda affascinante, ma sarà tutto vero?!?
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